I libri, specialmente se liturgici, rappresentano il perno su cui ogni comunità religiosa cadenza, secondo le ore canoniche, l’ opus Dei quotidiano attraverso la partecipazione alla messa e alla cantillazione dell’ufficio divino.
La fiorente città commerciale di Zara -, la romana ( Jadera) passata nell’orbita bizantina con il Regno di Croazia e Dalmazia -, dagli inizi del secolo XI entrò nelle mire espansionistiche di Venezia (interessata al controllo delle rotte orientali lungo l’Adriatico) per cui le dinastie locali, di maggiore identità etnica slava, nel tentativo di sottrarsi alla dominazione-veneziana cercavano piuttosto come interlocutore politico il Papato che, proprio durante i secoli XI-XII, puntava alla propagazione della riforma di rinnovamento ecclesiale inglobando anche le regioni adriatiche dell’Oriente europeo come argine verso la progressiva espansione del monachesimo greco-basiliano1. A Zara quindi, dopo la frattura determinata, di riflesso, dalla dissoluzione dell’impero carolingio, la ripresa culturale cominciò a riattivarsi verso la fine del secolo X, guidata proprio dal monachesimo benedettino-cassinese e, nello specifico, mediante un intenso flusso di scambi con il monastero pugliese di Santa Maria alle isole Tremiti (avvantaggiato dalla sua posizione strategica in prossimità del promontorio del Gargano); in prevalenza da qui provennero in effetti i modelli grafici assunti dalla produzione libraria di area dalmatica, progressivamente incrementati nella loro circolazione secondo l’ottica missionaria della cosiddetta riforma gregoriana promossa dalla Chiesa romana2.
Nel Cartulario di Santa Maria alle isole Tremiti ( Chartularium Tremitense, Vat. lat. 10657), ricopiato in beneventana agli inizi del secolo XIII prima del passaggio del cenobio all’osservanza cistercense (1237), il breve recordationis del 1023 fa appunto emergere il contesto della fondazione del cenobio di San Benedetto/Sveti Benedikt (poi Santa Maria/Sveti Marije) di Lacroma (Lokrum), riconducibile all’istanza corale della cittadinanza ragusina che, preceduta dal vescovo Lamprediussi era rivolta al monaco Pietro/Petar di Ragusa/Dubrovnik (formatosi a Santa Maria delle Tremiti) per donargli un terreno sulla medesima isola di Lacroma con la clausola di costituirvi una comunità monastica benedettina3.
Per i secoli XI-XIII le sopravvivenze librarie, scarse ma significative, documentano un intreccio di tradizioni grafiche e iconografiche che, nella prima fase del radicamento di evidente matrice cassinese, assume la chiara tipizzazione della scrittura beneventano-dalmatica (Bari-type) stilizzata soprattutto all’interno dello scriptorium di San Grisogono/Sveti Krševan di Zara (fondato agli inizi del secolo X mentre era priore Andrea/Andrija della schiatta aristocratica dei Madii/ Madijevci, che avrebbe dominato la città fino al secolo XII)4; l’evoluzione conseguita dall’andamento grafico lungo il secolo XIII è individuabile nella riduzione modulare e nella maggiore angolosità del tracciato, addebitabile con tutta probabilità all’influsso della littera textualis, in avanzamento anche tramite gli apporti della rotunda universitaria bolognese5. Nello stesso ambito territoriale aveva conosciuto uno sviluppo parallelo pure la minuscola ordinaria di base carolina, più familiare alla componente veneziana, da cui derivava soprattutto la prassi documentaria, rilevabile, ad esempio, nell’adozione prevalente della chartula/cartula, nella struttura dei formulari (benché localmente più stringati), e soprattutto nel ricorso ai sacerdoti in funzione di notai e cancellieri per i praecepta regi6. Anche nei documenti si coglie il progressivo travaso scrittorio dalla beneventano-dalmatica verso la minuscola di transizione, che a Zara pare attuarsi già alla fine del secolo XII con reciproche influenze tra i due sistemi grafici.
Nell’organizzazione ecclesiale del Regnum di Croazia e Dalmazia, con cui anche il papato continuava a risaldare le proprie relazioni politiche, un personaggio di spicco fu l’arcivescovo di Spalato Lorenzo/Lovro Dalmata (1060-1099), fautore del rafforzamento dei culti mediante la liturgia in latino, e a cui si deve anche la nomina a vescovo di Traù/Trogir del camaldolese Giovanni Ursino (ⴕ 1111), considerato santo dalla chiesa locale (e più noto come san Giovanni di Traù/sveti Ivan Trogirski)7. Già nel primo meritorio Codex diplomaticus Regni Croatiae, Slavoniae et Dalmatiae, raccolto alla fine dell’Ottocento da Ivan Kukuljevi¢- Sakcinski (1816-1889), compare una sua donazione del 1069, redatta dal proprio cancelliere che, come nel caso di Lacroma, veniva assicurata a un gruppo di aristocratiche di Spalato/Split per promuovere l’attivazione di una cellula monastica femminile guidata dalla badessa Chatena/Katena, ma dove, tra i numerosi testes che avevano il compito di corroborare l’ actio giuridica, figurava anche il monaco veneto Giovanni8.
Come manifesto della riforma della Chiesa del secolo XI dai monasteri dell’Italia centrale, dove erano commissionati per iniziativa pontificia, venivano diramati con irraggiamento dal centro alla periferia, molti manoscritti essenziali per le rinnovate comunità monastiche e canonicali, tra cui le maestose Bibbie atlantiche (con la serie completa dei libri, magari scissa in due tomi, comunque di grandi dimensioni), connotate in particolare da vistosi capilettera decorati in stile umbro-toscano, oppure i passionari, alcuni specifici testi di diritto canonico e la significativa produzione del papa-monaco Gregorio Magno (ⴕ 604)9.
In un quadro generale piuttosto complesso il duca Dimitar Zvonimir (ⴕ 1089), forse sempre per garantirsi gli appoggi dinastici contro le mire veneziane, nel 1076 aveva forse tentato un avvicinamento all’orbita di papa Gregorio VII (1073-1085) accettando l’incoronazione ufficiale a re di Croazia e Dalmazia (1075-1089) da parte di due legati pontifici -, ricompensata comunque con un lauto tributo versato alla Chiesa romana che includeva il ricco monastero regio di San Gregorio/ Sveti Grigorije di Vrana ( Laurana) -, con la conseguenza di sollevare un generale malcontento, sfociato in ostilità interne culminate nella sua violenta uccisione10.
Come si è anticipato il monachesimo cassinese fu impiantato a Zara verso il 986 con il cenobio di San Grisogono/Sveti Krševan (la chiesa originaria risaliva almeno all’890), in una sorta di ri-fondazione realizzata con la partecipazione di tutta la cittadinanza preceduta dal vescovo Anastasio (ante 978-post 981) e seguendo una ritualità che sarebbe diventata ricorrente11: durante il priorato di un esponente della dirigenza dei Madii/Madijevci, l’avvio ufficiale del monastero di San Grisogono, destinato a diventare il principale centro scrittorio urbano, veniva dunque affidata a un omonimo Madio, membro quindi della stessa élite zaratina, ma educato direttamente a Montecassino durante l’abbaziato di Aligerno (948-985), con la possibilità di sfruttare la il ricco appannaggio librario. Dalla seconda metà del secolo XI nella produzione grafica zaratina si riconosce più che altro l’apporto delle fondazioni della costa adriatica, dove comunque risulta evidente l’assimilazione dei vertici grafici e artistici raggiunti nella lunga parentesi dell’abate Desiderio di Montecassino (1072-1086)12.
Per le comunità religiose, soprattutto altomedievali, l’esibizione di arredi liturgici raffinati, come libri scintillanti di miniature dorate, suppellettili realizzate in metalli preziosi e tessuti costosi da custodire nel thesaurus, rappresentavano un imprescindibile elemento di distinzione consono alla mentalità aristocratica, che confermava la potestas delle autorità in carica come espressione del casato di provenienza, dei propri legami vassallatici e dell’accumulazione di vasti patrimoni fondiari13. La conferma è suggerita ad esempio proprio da Stefano/Stjepan, bano o forse re di Croazia (1030-1058) che, nel 1042, aveva assicurato a San Grisogono la donazione di una chiesa dotata di beni mobili e immobili dove, tra i ricercati arredi liturgici (icone, croci e turiboli), si distingueva anche un ragguardevole corpus librario costituito: tre messali, un passionario per la lettura delle porzioni agiografiche quotidiane, tre omeliari, due antifonari, due manuali, quattro salteri, due innari, un breviario e un volume definito Smaragdum, con cui in genere si alludeva a uno dei primi commenti della Regula sancti Benedicti di Smaragdo di Saint-Mihiel (760-840)14.
Come sottolineava Eric Palazzo data la loro importanza comunitaria le cerimonie religiose implicavano infatti un apparato conveniente, da contemplare alla luce delle candele e tra i profumi dell’incenso in modo da creare un’ambientazione adatta alla fruizione memoriale della liturgia nella grandiosità architettonica e attraverso l’esperienza della globalità dei cinque sensi15.
Anche tra le esigue sopravvivenze manoscritte di Santa Maria di Zara è comunque possibile evidenziare la compresenza di tipologie librarie e di stili grafici differenti che, dalla fluida eleganza dei libri di lusso, arrivano a documentare le fattezze più disarticolate ed ibride delle aggiunte obituarie sistemate nei dei calendari oppure nei completamenti del Codex Sanctae Mariae Iadrensis Zadar, Arhiv Benediktinskog Samostana sv. Marije, S.N. (da ora Cartulario)16: quest’ultimo repertorio documentario, per lo più in minuscola di transizione del secolo XII-XIII, rappresenta in effetti l’autentico liber iurium del monastero, deputato a illustrare la sua articolazione fondiaria dall’origine al secolo XIII-XIV. Nella sua articolazione interna la sezione più antica (ff. 8r-26v) è stata infatti esemplata da una sola mano esperta in elegante beneventano-dalmatica (Bari-type)17; i completamenti successivi - spesso collocati anche su spazi contigui come continuità delle insistenze topografiche - sono stati aggiunti da notai-preti, quasi sempre incardinati presso la cattedrale di Sant’Anastasia/ Sveta Stošije, che esibiscono come proprio contrassegno un signum di grandi dimensioni, senza che si possa evincere se siano stati o meno a servizio esclusivo dell’ente18.
Nel Cartulario, f. 8r-v resta tuttavia di riferimento il documento di apertura del 1105 che, come si vedrà, giustifica la confezione dell’intero registro, scaturito appunto dalla necessità da parte della badessa Vekenega (ⴕ 1111), figlia della fondatrice Čika (ⴕ 1072), di approfittare del nuovo clima di pace generale per farsi confermare dal nuovo sovrano ungro-croato Colomannus/Koloman (1095-1116) -, e in presenza del vescovo Gregorio/ Grigorije e dei maggiorenti della città -, l’intero patrimonio fondiario abbaziale, da tempo eroso dalle indebite invasioni dei privati: «hoc iussi describere privilegium de possessione terre quam genitrix mea Cicca comparavit Iadertinibus…»; il merito della madre nell’organica costituzione delle proprietà di un contesto agro-pastorale, viene fatto risalire all’acquisto dei terreni iniziali posti «in loco qui dicitur Caprali», barattati per il valore di un pregevole cavallo bianco, prima di enumerare le donazioni di varie personalità e i praecepta di tuitio regia19.
Il documento più antico riportato dal Cartulario (ff. 11r-13r) è appunto la chartula del 1066, in cui è trascritto l’atto di fondazione da parte dell’aristocratica Čika: in armonia con la tradizione patristica, soprattutto di Ambrogio e Agostino, veniva ripreso il fenomeno altomedievale dei monasteri femminili i quali, soprattutto in caso di vedovanza, si trasformavano per le donne in ambiti di autonomia protetta, ma in stretta connessione con il nucleo familiare di provenienza, che nell’ente immobilizzava buona parte del patrimonio assicurandosi, in via prioritaria, l’intercessione della preghiera costante, alimentata dal culto delle reliquie e in correlazione con altri gruppi parentali, tradizionalmente inclini ad incrementare il patrimonio con doni generosi e legati testamentari ( donationes pro anima)20. Nella sua eloquente brevitas il documento sintetizza gli elementi essenziali dell’evento, come sempre ratificato dalla presenza dell’intera comunità cittadina: Čika -, che si proclama figlia di Dujam ( Doimus secondo l’onomastica santorale locale) e di Vekenega (come sarà il nome della propria figlia), e soprattutto nipote del priore Madio, dunque membro del casato dominante, vedova in seguito all’uccisione del marito Andrea, per preservare la propria salvaguardia «qualiter istius caduce vite non perdere hereditatem», aveva ritenuto più opportuno ( mihi salubrius) realizzare personalmente un’istituzione monastica in cui ricoverarsi con la figlia maggiore Domnana e, nel rispetto della gerarchia familiare, aveva notificato il suo fermo proposito al proprio fratello, ovviamente dopo avere ottenuto il consenso dei vertici istituzionali - il vescovo Stefano/ Stjepan I (1065-1073), sempre della medesima stirpe dei Madii, il priore Drago, e la comunità maschile di San Grisogono retta dall’abate Pietro/Petar -, insieme all’assegnazione dell’«ecclesiolam Sancte Marie minoris», accanto a cui sarebbe sorto il monastero21. La figlia minore, la ricordata Vekenega, inizialmente era stata destinata al matrimonio, ma con la morte violenta del consorte nel 1071 aveva raggiunto il cenobio familiare dove forse verso il 1090-1191, o qualche anno prima, avrebbe sostituito la madre nella dignità di badessa22. La progressione degli ampliamenti strutturali e terrieri -, che Čika, si era prefissa di registrare puntualmente - «scribo…que in domibus sive terris vel constructionibus eodem tempore aquisita» ( Cartulario, f. 12r) -, era stata finanziata attingendo in prevalenza alla propria dotazione pecuniaria cioè, come precisa orgogliosamente «de proprio meo matrimonio», aggregando dunque, quasi secondo un processo modulare, piccole porzioni di case attigue a un corpo centrale, includendo anche una piccola cucina ( coquinulam) e un orto davanti alla loro chiesetta di Santa Maria minore, e assommando pure qualche donazione garantita dalle nuove sorores, quasi sempre provenienti dallo stesso gruppo parentale23. Si era inoltre premurata di dotare la comunità di un minimo bagaglio librario per l’assolvimento dei riti sacri quotidiani, di cui resta un breve inventario, lacunoso forse a causa di un guasto nel documento originario, in cui sono elencati due innari e un matutinale (per l’ officium matutinale delle laudes), tutti accuratamente riposti nel tesoro insieme a un grande cero anch’esso destinato alla recita delle lodi, accanto a diverse candele per garantire l’illuminazione della chiesa24. Subito nel Natale del medesimo anno 1066 il monastero aveva ricevuto il riconoscimento regio da parte di Petar Krešimir IV, re di Croazia e Dalmazia che, vantando peraltro legami di parentela con la fondatrice, in presenza dei notabili e ancora del menzionato Pietro abate di San Grisogono, aveva assicurato solennemente al cenobio la propria protezione con la concessione della «regiam libertatem» ( Cartulario, ff. 15v-16v)25. Tra il 1066-1067 lo stesso re, nella formula della «donatio pro anima» in favore della propria persona e della sua stirpe, ne aveva ampliato la compagine cedendo una terra di diritto fiscale ubicata in «Tochenia, que regalis est dinoscitur», seguita nel Cartulario (ff. 9v-10v, 17v-18v, 30v-31v) dalla pubblica conferma nel 1078 del suo successore Dimitar Zvonimir26. Sempre secondo la specificazione patrimoniale del Cartulario (f. 25r-v) nel 1072, durante l’abbaziato di Agapis (che dunque raccolse la successione di Čika), e presumibilmente in concomitanza con la cerimonia di dedicazione della prima chiesa abbaziale, il re Petar Krešimir IV aveva voluto aggiungere un ulteriore appezzamento terriero «in Berda»27. Analogamente anche il vescovo di Zara Andrea/ Andrija III, allo scopo condiviso di garantire alla comunità religiosa una piena autonomia economica al riparo delle interferenze esterne («veram libertatem»), aveva donato al monastero zaratino di Santa Maria l’isola Silva ( Cartulario, f. 14r-v); nello stesso frangente della dedicazione della chiesa («in dedicatione basilice») pure Drago, allora priore in carica, aveva conferito al monastero femminile la totale immunità, comprovata dalla congiunta autorità ecclesiastiche del vescovo Andrea/Andrija III e dell’arcivescovo Lorenzo/Lovro di Spalato, e riconfermata periodicamente nel 1087 e nel 1094 dal re Dimitar Zvonimir ( Cartulario, f. 18r-v)28.
Nei torbidi seguiti alla successione dinastica del Regnum Chroatiae et Dalmatiae Vekenega, nel ruolo di badessa di Santa Maria di Zara, e presumibilmente appoggiata dalla propria schiatta, si era schierata in favore della resa incruenta della città a Koloman (appartenente alla dinastia Arpad) il quale si era distinto per avere negoziato nel 1102 a Belgrado/Beograd la sua autorità regia con le tribù croate (pretendendo il proprio riconoscimento cronico nella documentazione al posto dell’imperatore bizantino)29. Il nuovo sovrano era noto per il suo sgradevole aspetto fisico (piccolo, gobbo, mezzo cieco e segnato da zoppia e balbuzie), che contrastava invece con la sua decisa abilità diplomatica, perfezionata durante una iniziale carriera ecclesiastica come vescovo di Eger e Varad, che l’avrebbe favorito nelle relazioni politiche con il Papato, consolidate con la concessione di transito sul suo territorio ai primi Crociati e attraverso il matrimonio con la riluttante figlia di Ruggero I d’Altavilla, il primo conte normanno di Sicilia (1062-1101) strettamente legato all’orbita pontificia30. Nel 1105 Koloman, sferrando l’assedio a Zara, intendeva rafforzare la propria influenza anche sulle libere città della Dalmazia marittima, approfittando dell’attenuazione del controllo dei Veneziani, allora impegnati militarmente nelle Crociate d’Oltremare; alla risoluzione pacifica del conflitto per Spalato/Split concorse tuttavia l’intervento del vescovo Giovanni/Ivan di Traù/Trogir e, per Zara, la ponderata mediazione di Vekenega31: dal Cartulario (f. 8r-v) emerge come Koloman, non appena entrato trionfalmente in città («quo triumphaliter Iaderam ingressus est»), avesse voluto manifestare la propria concreta gratitudine alla badessa assumendosi le spese per la costruzione dell’imponente torre campanaria di struttura lombarda, come rievoca l’epigrafe commemorativa tracciata da un esperto lapicida in un tipo di capitale arrotondata (rarissime le C squadrate, poche le E onciali), leggermente apicata, distanziata e separata da punti, movimentata da nessi e da lettere inscritte e di modulo minore, in cui il committente rammenta la propria vittoria qualificandosi, come nella successiva documentazione, «rex Ungariae Dalmatiae Chroatiae»: «Anno incarnationis Domini nostri Ihesu Christi millesimo CV post victoriam et pacis praemia Iadere introitus a Deo concessa, proprio sumptu hanc turrim Sanctae Mariae Ungariae Dalmatiae Chroatiae construi et erigi iussit rex Collomannus»32. Un’analoga morfologia grafica ricorre nel trigrafema distribuito sui capitelli a cubo della cappella regia, sistemata al primo piano della stessa torre: «R(ex) CO / LLO / MAN / NUS» e, qualche anno più tardi, nella sala capitolare aggiunta dalla stessa badessa Vekenega nel 1105, fu posto il suo monumento funebre, inciso con maestria in eleganti esametri leonini con la rima interna che, iniziando con «Laude nitens multa iacet hic Vekenega sepulta», costituisce una testimonianza della cultura letteraria croata in cui si colgono echi della poesia classica di Ovidio e di quella cristiana di Prudenzio (348-413 circa)33. La badessa defunta viene pertanto esaltata per la sua modalità di difendere l’ovile dai nemici delle consorelle, sempre guidate con l’azione esemplare piuttosto che con i rimproveri, garantendo al cenobio un’indiscutibile fioritura: «domus crevit et iste locus». Nel Cartulario (f. 11v) un segno tangibile della crescente ricchezza del monastero è fornito dall’inventario dell’oreficeria e dei paramenti sacri, redatto in minuscola di transizione degli inizi del secolo XIII, ma in un latino poco stabile, che inizia con i lemmi «Capsa sancti Cirin, Capsa sancti Grigoro»34: la «Capsa sancti Grigoro» è in effetti identificabile presso la Stalna izložba crkvene umjetnosti di Zara nella splendida cassetta-reliquiario in legno rivestito da lamine in argento sbalzato e ascrivibile alla manifattura locale del secolo XII-XIII, che appare decorato sui lati con scene della vita di Cristo uniformate dal consueto elemento architettonico tardo-antico delle arcate, mentre il lato lungo posteriore accoglie San Gregorio Magno tra i santi zaratini Grisogono/Krševan) e Anastasia/ Stošije, sempre incorniciato dalle arcate); sono invece andate perdute, o forse sostituite, la capsa di san Quirino/ sveti Kvirin, di cui lo stesso museo custodisce un manufatto più recente del secolo XIV, e la coperta de argento, cioè la preziosa legatura libraria di cui restano come configurazione tipologica i due esemplari della fine del secolo XIII35.
Del medesimo livello esecutivo sono pure le sopravvivenze librarie più antiche del monastero che testimoniano il gusto bibliofilo e la munificenza delle fondatrici, per quanto la compattezza grafica e decorativa della matrice beneventano-pugliese ( mise a page a linee lunghe, capilettera a nodi e intrecci arricchiti da elementi vegetali, antropomorfi e protomi zoomorfe, spesso con sfondi o riempimenti dorati) rende difficoltosa l’attribuzione della committenza a Či ka piuttosto che a Vekenega36. Il gruppo comprende gli Officia et preces ad usum benedictinum (definiti anche libri d’ore o breviari) Budapest, Magyar Tudományos Akadémia Könyvtár, K 394 e Oxford, Canonici Lit. 277, quasi gemelli anche per formato e nell’assemblaggio di vari uffici liturgici, collocabili tra i primi esemplari di tale tipologia liturgica, il primo dei quali è forse riconducibile a Či ka per la maggiore semplicità di impostazione37. A essi si aggiunge l’Evangelistario Oxford, Canonici Bibl. lat. 61, con le pericopi per le principali festività dell’anno liturgico, compreso l’ Exultet pasquale con corredo neumatico38.
Nell’Oxford, Canonici Lit. 277, copiato da una mano principale (ff. 1r-v, 19r-v, 4r-104r, 106r-142r, con brevi completamenti coevi e posteriori fino al secolo XIV) la datazione sembra poter essere precisata dall’assenza di preghiere per i dogi o per i regnanti locali (la dinastia dalmata si era estinta nel 1091 e manca la menzione del re Koloman intronizzato nel 1102), ma l’efficace ancoraggio al monastero zaratino di Santa Maria è suggerito dall’attenzione eucologica per san Benedetto (f. 72r-v), per sant’Anastasia, cui era intitolata la cattedrale di Zara, per le preghiere a san Grisogono (f. 69r-v), e infine per la menzione di san Zoilo/sveti Zoilo, di cui a Zara erano conservate le reliquie39. Ancora più significativa è un’aggiunta al f. 150v con delle laudes rimate con oscillazioni consonantiche, introdotte in grafia e con notazione neumatica in beneventana, con cui si presenta l’intera popolazione di Dalmazia pronta a riconoscere i meriti di una badessa di Santa Maria dal nome abilmente cancellato ma, come suggeriva Viktor Novak, riconoscibile in quello di Rozana/Rosana (circa 1170-1183)40: «Laetabunda ac iocunda fatie / Huniversus populus Dalmatie / Quos [Rozana] abbatissa ad honorem / Semper candet splendide / Imperatrix monacharum et salvatrix / Amore inclinamus nostrum capud / Tibi domina earum. Amen». Risulta inoltre significativo come il brano poetico figuri all’interno di una sezione finale in minuscola carolina della seconda metà del secolo XII contenente la Visio Pauli apostoli (ff. 147v-153v), la nota apocalisse paolina conosciuta nel medioevo in almeno dodici differenti visioni41. Nel codice, completato con aggiunte musicali degli inizi del secolo XV (ff. 2r-4v), anche la Salve Regina conclusiva, sistemata sul f. 154v, è trasposta in minuscola di transizione accostabile alla grafia del ricordato inventario dei preziosi arredi abbaziali; sul versante della commistione grafica si rivelano tuttavia ancora più rappresentative le note obituarie del secolo XII aggiunte nel Calendario iniziale (ff. 4r-19v), peraltro scarsamente popolato da presenze santorali. Tali inserzioni - tipizzate dall’onomastica slava ma di difficile identificazione prosopografica - sono spesso redatte in grafie più pesanti o disarticolate, sia in beneventana sia in minuscola ordinaria o nelle forme ibride della contaminazione tra i due tipi grafici, come è in minuscola ordinaria, in parte erasa, la preghiera dell’ Ave Maria (f. 10v, in parte cancellata)42.
Coerente per il sontuoso stile grafico-decorativo della beneventano-dalmatica è pure il coevo e magnifico Evangelistario Oxford, Canonici Bibl. lat. 61, in cui temporale e santorale sono mescolati e che, secondo Viktor Novak, insieme all’Oxford, Canonici Lit. 277 sarebbe stato asportato dal cenobio zaratino di Santa Maria dal gesuita veneziano Matteo Luigi Canonici (1727-1805) - bibliofilo e accanito collezionista d’arte particolarmente abile nel farsi regalare «antichità» dai vari interlocutori -, prima che i suoi eredi nel 1817 vendessero il suo patrimonio librario alla biblioteca universitaria di Oxford43. L’Evangelistario oxoniense, con ampi margini e abbondanza di oro e di giallo brillante nei capilettera a intreccio vegetale, fu forse commissionato in occasione di una nuova consacrazione della chiesa abbaziale (1091), di cui presenta il formulario eucologico al f. 195r, per poi essere ultimato negli anni appena successivi (1095 e 1096); comprende iniziali a piena pagina, come ad esempio al f. 115r nell’ incipit dell’ Exultet (ff. 116v-123r) del preconio pasquale, in cui erano tradizionalmente incluse anche le preghiere specifiche per papi, imperatori oppure autorità spirituali o temporali i cui nomi venivano omessi o celati sotto una sigla44. Qui, come elemento datante e localizzante, si ritrova quindi un chiaro riferimento alla comunità di Santa Maria nella persona della badessa Vekenega, indicata solo con l’iniziale «V.» (ff. 122v-123r), insieme alle preghiere speciali per il pontefice e per il priore cittadino: «Memento etiam necnon et famuli tui prioris nostri...; Respice … ad devotionem famule tue abatisse U. totiusque congregationis Sancte Marie sibi commisse»45. Interessanti sono tuttavia anche le osservazioni sulla notazione musicale sovrapposta ai nomi propri (f. 122r), che suggerisce una possibile corrispondenza sillabica in base al numero delle note, quindi «cum beatissimo papa nostro» (quattro note), «et antistae nostro» (tre note) «famuli tui imperatoris» (sette note), «famuli tui prioris nostri» (quattro note), potrebbe quindi determinare la convergenza cronologica di papa Gregorio VII, del vescovo di Zara Stefano/Stjepan II (1073-1090), della presenza dell’imperatore d’Oriente e il nome della badessa in due sole note per il diminutivo Veka invece di Vekenega, e dunque la possibile anticipazione della confezione del codice al 1081-1086 e dunque, di rimando, anche dell’abbaziato di Vekenega, posto in genere dal 1095 al 111146. Nel manoscritto un ulteriore arricchimento liturgico è fornito dalle cosiddette litterae passionis, adottate per indicare il timbro melodico differenziato per la cantillazione recitativa della pericope del Passio durante la settimana santa, in cui venivano distinte le voci narrative in base all’altezza del tono melodico, in particolare quella di Gesù, in genere segnalata da una croce stilizzata a volte rubricata ( +), mentre le altre lettere riservate al narratore nei codici erano adottate con grande libertà47. Nell’Oxford, Canon. Lit. 277 risultano coeve solo quelle del brano di san Matteo (f. 71r: con e, i e la crux) per la Domenica delle Palme, mentre nelle altre pericopi (ff. 84v, 94r, 119r) le serie alfabetiche c, s e la crux ( +) sono state aggiunte in inchiostro bruno più tardi (secolo XIII?).
Presso l’archivio monastico locale Zadar, Arhiv Benediktinskog Samostana sv. Marije, R-20 («Codex Jadrensis») si conserva inoltre anche un manoscritto composito che trasmette alcune opere di Gregorio Magno: la cui parte iniziale accoglie il diffusissimo testo teologico-morale dei Moralia in Job, copiato a piena pagina in beneventano-dalmatica da un unico copista del secolo XII (da cui sono state asportate le miniature delle numerose piccole iniziali maiuscole), con segni di lettura dei secoli XIII-XIV in grafia textualis apposte da lettori successivi che, probabilmente, compulsarono anche la sezione seguente con paginazione propria, riservata a una gregoriana Regula pastoralis in littera Bononiensis del secolo XII48.
Le poche spie indiziarie avvalorano comunque l’ipotesi che nei secoli XII-XIII Santa Maria di Zara dovesse essere un monastero guidato da donne capaci di garantire all’ente un’oculata amministrazione espansiva, ma contestualmente di livello culturale non comune, a dispetto delle avare attestazioni grafiche femminili offerte dai manoscritti altomedievali49. Colpisce in effetti il tenore della cartula recordationis fatta redigere nel 1170 da Stana, una madre zaratina che, prossima alla morte, aveva deciso di affidare al cenobio (e personalmente alla ricordata badessa Rozana) il giovane figlio Pruoso perché fosse istruito dalle monache fino a diventare sacerdote, o in caso di mancata vocazione, o di scarsa predisposizione allo studio, come factotum della comunità50.
Per la loro condizione incideva sicuramente il benessere generalizzato della città, sempre più nevralgica per i transiti marittimi se nel 1177 (come attesta Cesare Baronio in Annales ecclesiastici, XIX. Cap. XCI) - papa Alessandro III (1159-1181), in viaggio verso Venezia per incontrare l’imperatore Federico Barbarossa con un corteo di undici galee, aveva fatto una sosta a Zara, dove era stato accolto dall’arcivescovo Lampridius nella cattedrale di Sant’Anastasia tra le acclamazioni del clero e del popolo pronunciate nella loro lingua materna «in eorum slavonica lingua»51.
Qualche decennio più tardi, in un contesto di pesante rarefazione notarile, il dinamismo gestionale del cenobio di Santa Maria fu interpretato della badessa Bona che, nel 1228, emulando l’autorità pubblica, arrivò a validare una cartula testificationis apponendo un proprio sigillo: «Et quia civitas Iadertina notarium non habet, hanc testificationis cartulam sigillo meo imprimo et confirmo»52.