Introduzione – l’educazione morale nella società pluralista
Secondo Neil Levy il sistema di valori morali posseduto da un individuo altro non è che un prodotto dell’ inculturazione.1 Questa constatazione non deve apparire sorprendente, in quanto il carattere sociale della moralità è desumibile già dall’etimologia della parola. Coniato da Cicerone per calco del vocabolo greco ethos ( ἦϑος), il termine latino mos indica il »costume« e la moralità è legata alla legge che regola la convivenza umana, secondo una gradazione di doveri.2
La convivenza umana diventa sempre più complessa in contesti sociali che includono un numero crescente di abitanti e che testimoniano l’incontro e lo scontro di culture diverse. Soggetti che non sono cresciuti con gli stessi presupposti di inculturazione ora si trovano a cercare dei compromessi per poter convivere pacificamente. La sfida accresce nell’ambito scolastico, in cui gli insegnanti si trovano a dover conciliare le realtà sociali più disparate proponendo un modello educativo-istruttivo unico. Quali linee guida si possono seguire per crescere al meglio giovani cittadini pensanti, senza imporre o far predominare le proprie convinzioni morali su quelle dell’alunno e dell’ambiente famigliare/culturale da cui proviene?
Roger Straughan in Can we teach children to be good? sostiene che un’idea di un’educazione moralmente neutra sia una mera illusione, così come il sapere di per sé non è sufficiente a rendere morale l’individuo. Nel momento stesso in cui appoggiamo determinati atteggiamenti piuttosto che altri, ovverosia esprimiamo una preferenza o operiamo una scelta, non agiamo in modo moralmente neutro.3 Pertanto, al fine di porre in piena consapevolezza le basi di un sistema educativo-istruttivo moderno, è d’obbligo analizzare a che cosa ci riferiamo quando utilizziamo i vocaboli relativi alla sfera della moralità. Quando l’azione di un alunno sarà giusta? Quando potremo dirci soddisfatti del processo educativo-istruttivo e ci saremo avvicinati alla realizzazione del bene?
La filosofia antica, ripresa da filosofi dell’educazione contemporanei quali Dewey e Whitehead, offre più di una risposta. Pure Foucault, Elster, Nussbaum, nonché Hadot e Marinoff, in qualità di rappresentanti di una nuova generazione di filosofi volti a promuovere la filosofia pratica (incentrata soprattutto sul dialogo, quale elemento ineludibile per la formazione di una società sana)4, assieme a molti altri nelle loro ricerche valorizzano le ricchezze del sistema istruttivo-educativo antico. Attraverso l’analisi della filosofia dell’educazione di Socrate, Platone ed Aristotele è possibile offrire qualche proposta di conciliazione tra pluralismo (ormai divenuto requisito della società contemporanea ed imperante dinanzi agli educatori) e educazione morale. Pertanto, nel presente saggio verranno esposti i summenzionati principi educativi e verrà illustrato il modo in cui venivano applicati e come ancor oggi possono venir inglobati nella didattica o nella quotidianità,5 tenendo conto della nuova realtà sociale in cui vengono applicati.6
1. Socrate e il ruolo della maieutica nell’educazione
L’etica delle virtù considera l’azione in base all’agente, piuttosto che soffermarsi sull’azione in sé (etica deontologica) o sulle conseguenze dell’azione (etica consequenzialista).7 L’attenzione viene incentrata sulla formazione del soggetto, l’acquisizione delle giuste abitudini ed i tratti caratteriali necessari per agire moralmente. Gli antichi precetti ai quali si può far risalire tale atteggiamento sono lo gnothi seauton (conosci te stesso) e l’ epimeleia heautou (prenditi cura di te)8, – concetti ricorrenti sempre in maggior misura nella filosofia dell’educazione contemporanea.9 Mentre per Aristotele Socrate è il primo ad aver indagato le virtù etiche tentando di darne una definizione10, il ricercatore Mario Vegetti spiega che esso è piuttosto l’erede di una lunga tradizione di ricerca e di confronto sulle virtù.11 Ciò che Aristotele cerca di puntualizzare, però, come afferma lo stesso Vegetti, è il primato di Socrate nel tentativo di fornire una definizione generale delle virtù. Per poter plasmare le virtù è necessario offrire all’individuo il giusto stimolo che lo porterà a prendersi cura di sé e a realizzare le proprie potenzialità. Di seguito verrà spiegato come ciò veniva attuato nell’antica Grecia, dove i filosofi, partendo dall’analisi delle virtù, giungevano all’analisi di chi possedeva tali virtù, ovvero l’individuo.
Nell’analisi del pensiero socratico un palese problema metodologico è riconducibile all’assenza di testi autografi. Tuttavia, tale difficoltà non ci preclude la filosofia che ci è tramandata dai suoi contemporanei nell’intento di omaggiare la sua figura attraverso il genere letterario dei logoi sokratikoi.12 Offrono sicuramente un lauto contributo a questa tradizione i dialoghi giovanili di Platone . A conferma della tesi di Aristotele giungono così le considerazioni espresse da Platone nel Menone. Nel dialogo giovanile Socrate-personaggio articola la sua ricerca a partire dal quesito sull’apprendibilità delle virtù, per chiarire poi il concetto stesso di virtù. Attraverso il personaggio di Menone Platone spiega che per diverse persone (donne, uomini, bambini, anziani) potrebbero esistere diverse virtù: la virtù, pertanto, non è universale ma particolare.13 Socrate reputa inutile focalizzarsi su casi specifici: è necessario trovare il punto in comune tra tutte le virtù. Chiede a Menone se la salute di una donna e la salute di un uomo si differenzino per qualche motivo, cosa che Menone nega. Partendo da questo esempio Socrate spiega che tutte le virtù particolari possono venir ricondotte a virtù generali.14 Con la pretesa di un’unica ed oggettiva verità, la tensione di Socrate a dei valori universali esclude così l’opzione del relativismo e della convivenza di diversi sistemi morali in una società pluralista. Per trovare dei punti d’incontro con la contemporaneità è necessario analizzare più a fondo la teoria esposta.
Il dialogo prosegue con la questione dell’identificazione della virtù. Menone cerca di elencarne alcune (la giustizia, la forza, il sapere, il coraggio, la temperanza, ecc.) e nota che l’elenco si fa abbondante. A questa considerazione di Menone si riallaccia Socrate, il quale nota che tutte queste virtù non sono fini a se stesse, ma sono a loro volta indirizzate verso un obiettivo esterno:
»La virtù è il saper godere delle cose belle, avere la capacità di godere, di volere cose belle e saperle procurare.«15
Se nell’etica moderna prevale il carattere deontologico, nell’etica antica prevale quello eudaimonistico: l’azione morale trova come giustificazione la realizzazione personale dell’individuo ed il suo raggiungimento della felicità ( eudaimon).16 Questa felicità, conseguenza naturale del saper procurare »cose belle«, in epoca antica assume caratteri molto diversi da un autore all’altro. Come il bello aristocratico ungherese dell’Ottocento non coincide con il bello socialista jugoslavo del Novecento, così la felicità che per Omero è rappresentata dalla gloria e dalla vittoria sul campo di battaglia nonché dalla salvezza dell’anima nell’oltretomba, per gli epicurei consiste nella minimalizzazione del dolore e nell’atarassia, mentre negli stoici si traduce in incrollabile autonomia e indipendenza dell’individuo.17
Ma se il »dovere« non è scisso dalla »felicità« e se il concetto di »felicità« muta a seconda di chi lo concepisce, come si possono definire a loro volta la sfera del »dovere« o le norme morali necessarie per perseguire tutti questi fini diversi?
Nell’ambito della filosofia politica Nozick affronta il problema delineando lo stato minimo, un’istituzione che concede massimo spazio all’individualismo e all’autodeterminazione dei singoli, limitandosi a proteggere e tutelare i diritti fondamentali dell’uomo:
»Each community must win and hold the voluntary adherence of its members. No pattern is imposed on everyone, and the result will be one pattern if and only if everyone voluntarily chooses to live in accordance with that pattern of community.«18
Tuttavia, soluzioni opinabili ma sicuramente funzionali in ambito politico, non possono essere altrettanto utili in quello educativo, in quanto quest’ultimo risponde ad una logica diversa. Infatti, se nella prospettiva liberalista è fondamentale rispettare il diritto dei cittadini alla libertà di pensiero e di parola, nonché assicurare a ciascuno la possibilità di forgiare la propria esistenza nel modo che reputa migliore19, ciò resta applicabile solo ad individui maggiorenni, adulti indipendenti. In ambito educativo la fascia d’età interessata porta a ridimensionare la questione: nelle istituzioni educativo-istruttive si dovrebbe insegnare ai ragazzi a ragionare in modo coerente e logico, a scegliere in modo consapevole e razionale, nonché fornire loro gli strumenti con i quali un giorno potranno modellare i propri percorsi da cittadini responsabili. Mentre in politica si enfatizza maggiormente il concetto di libertà negativa, intesa come assenza di ostacoli o limiti nel poter compiere una data azione, l’educazione è protesa maggiormente al concetto di libertà positiva, in quanto possibilità di scegliere in modo informato e consapevole tra due o più opzioni:
»C’è poi una libertà in positivo, che consiste nell’essere effettivamente in grado di fare tante cose diverse, nell’aver sviluppato tante diverse capacità e poter quindi scegliere di volta in volta che cosa fare e come farlo, nel non essere costretti a fare l’unica cosa che si sa.«20
Nel Menone Socrate procede spiegando che nessuna virtù è di per sé buona. Accanto a tutte le virtù menzionate da Menone è necessario ancora qualcosa per assicurarne la realizzazione. Un individuo coraggioso ma irrazionale non ottiene alcun beneficio dalle proprie azioni. Lo stesso è vero per un individuo bello e forte ma sragionato. Alla fine del dialogo Menone comprende l’infondatezza delle sue convinzioni relative alla virtù e, assieme a Socrate, scopre l’unica virtù che non dipende dalle altre: la saggezza. Le qualità umane non sono di per sé buone o cattive, ma diventano tali dipendentemente dal loro saggio o stolto utilizzo. Gli individui, secondo Socrate, agiscono moralmente per apprendimento e non per natura.
Sorge a questo punto un ulteriore problema: che cosa significa agire saggamente?21 Nel Menone non si ha risposta e Platone dedica alla questione un altro dialogo, il Carmide. Anche quest’ultima opera, però, non porta ad una definizione quanto piuttosto ad una dichiarazione di metodo. Dialogando con Crizia e Carmide, Socrate rende manifesto cosa non può essere la saggezza, ricorrendo alla riduzione per assurdo, e nell’attuare la sua ricerca utilizza il metodo che lo ha reso famoso: la maieutica .22 Mentre è alla ricerca di una risposta il maestro ateniese, pur non trovando la soluzione e non potendo stabilire con certezza il limite tra la saggezza e la sapienza, insegna ai suoi discepoli il percorso didattico da seguire.23
In una società pluralista che ambisca alla pacifica convivenza di più culture, uno dei punti chiave risiede proprio nell’applicazione del percorso proposto da Socrate: uno dei fondamenti del sistema educativo ed istruttivo dev’essere imparare a pensare.24
Socrate si prefissava tale obiettivo nel tentativo di (ri)educare gli ateniesi, abituandoli al pensiero critico e all’umiltà intellettuale, visti quali basi per una società migliore.25
Con il dialogo maieutico Socrate non lascia che l’interlocutore rimanga un destinatario passivo di verità preconfezionate, ma lo pone nella posizione di partecipante attivo al processo comunicativo, includendolo nella discussione e facendo del dialogo una ricerca sociale di una verità sempre rinnovabile a partire dall’individuo che la recepisce:
»Il dialogo permette, all’interno di una ricerca comune, di avvicinarsi alla verità, di fare in modo che l’interlocutore scopra in prima persona la verità, evitando quindi un’esposizione dogmatica da parte del maestro. Se la conoscenza non fosse vissuta in prima persona (...) verrebbe percepita dall’interlocutore come qualcosa di esterno e non avrebbe la forza di portarlo ad agire conformemente a quella conoscenza.«26
Nel far ragionare i suoi allievi Socrate reputa necessario liberarli dalle false credenze e dai pregiudizi e per conseguire tale obiettivo, spiega Candiotto, utilizza l’elenchos, ovvero la confutazione. Innanzitutto, esamina le tesi dell’interlocutore; in secondo luogo, avanza delle obiezioni portando le suddette tesi alla contraddittorietà e l’allievo alla presa di coscienza degli errori commessi nel ragionamento. Nel metodo socratico è fondamentale che la discussione venga mossa a partire dalla base concettuale dell’interlocutore (come affermerà successivamente il cognitivismo degli anni ‘6027), aggiungendo progressivamente elementi che esso è in grado di comprendere e in base ai quali modifica necessariamente le proprie convinzioni, accorgendosi della loro infondatezza.
Se nel Socrate di Platone i concetti di sapienza e saggezza si confondono, giungendo alla dottrina intellettualistica in base alla quale la conoscenza sarebbe la condizione sufficiente per agire virtuosamente, Senofonte aggiunge lo stretto legame tra teoria e pratica. Nei Memorabili, infatti, l’autore spiega che per Socrate il saggio era colui che »conoscendo le cose belle e buone, sapesse servirsene, conoscendo le brutte, sapesse guardarsene«28. La massima virtù, secondo tale definizione, consisterebbe nel saper applicare in modo ragionevole ciò che si è appreso, saper distinguere con prudenza il bene dal male, saper valutare le situazioni e decidere (integrando poi le considerazioni espresse nel Carmide potremmo aggiungere »con rapidità«29).
Lou Marinoff, uno dei sostenitori della filosofia pratica,30 propone una strategia per la risoluzione di problemi basata sul dialogo socratico. Quest’ultimo viene articolato attraverso cinque tappe: nella prima è importante far luce sul problema in sé, nella seconda vanno affrontate le emozioni che il problema fa emergere, nella terza si analizzano le soluzioni cercando quella più adeguata, nella quarta è necessario contemplare, ovvero osservare, la situazione nell’insieme (possibilmente sottraendovi la carica emotiva), mentre nella quinta si cerca di ripristinare una situazione d’equilibrio, scegliendo come agire e quali passi intraprendere per risolvere il problema.31
L’insegnamento conforme al rispetto della diversità può trovare nella maieutica un primo importante strumento grazie al quale diviene possibile paragonare molteplici punti di vista senza imporne necessariamente alcuno, facendo luce sui punti deboli delle varie teorie proposte ed educando nel contempo gli allievi ad un ragionamento etico che includa la cura di sé (delle proprie emozioni, del proprio stato d’animo) e degli altri (mediante l’empatia e l’elaborazione di giudizi condivisi).32
2. La cura di sé quale base della conoscenza
Sin dall’antichità l’insegnamento non è stato meramente una trasmissione di informazioni corrette, in quanto il processo educativo include inevitabilmente anche una concezione dell’essere umano, del cittadino, e plasma gli individui in base ai precetti che dai vertici delle istituzioni o delle scuole di pensiero vengono stimati giusti.
Per i pitagorici era fondamentale la diligenza, per gli allievi di Socrate la predisposizione al dialogo e alla ricerca, per Platone il perfezionamento nell’ambito nel quale si possiede maggiore talento (evitando di svolgere diverse mansioni), per Aristotele la virtù intesa quale via di mezzo tra due estremi opposti.33
Educare significa anche modellare un individuo, contribuire alla sua formazione, e per svolgere questo delicato compito nel modo migliore bisogna chiedersi quali siano i valori da trasmettere.34 Si è visto nel paragrafo precedente che uno dei punti saldi tramandatici dall’antichità è costituito dall’abilità di pensiero logico-analitico, che assicura sempre un riparo dalle insidie dell’indottrinamento e dell’imposizione di contenuti particolari in modo acritico. Un altro pilastro, strettamente connesso al primo, è legato allo gnothi seauton e all’ epimeleia heuton. Imparando, l’alunno impara a conoscere sé stesso, a capire sé stesso ed il proprio ruolo nel mondo. Il precetto delfico non è andato dimenticato nella contemporaneità, basti pensare a Nietzsche, che in una lettera del 1882 scriveva a Lou Salomé:
»Eppure la natura ha dato a ogni essere diverse armi di difesa – e a Lei ha dato la splendida franchezza della Sua volontà. Pindaro dice a un certo punto: Diventa quello che sei!«35
Un’altra interessante rivisitazione della nota disposizione greca viene offerta da Luce Irigaray in Nascere, dove spiega che i bambini dovrebbero venir educati »cosicché possano prendersi cura di sé stessi e diventare chi sono veramente trascendendo e trasformando sé stessi di continuo.«36 La conoscenza di sé è un obiettivo piuttosto arduo, che ci può portare al binomio ancora irrisolto del rapporto che intercorre tra genetica ed ambiente: chi siamo è inscritto nel nostro codice genetico, con particelle che potrebbero attivarsi qualora si presentasse lo stimolo adeguato, oppure è l’esperienza a forgiare la nostra persona?37 E anche in tal caso, abbiamo davvero un ruolo decisivo nella scelta della nostra identità oppure siamo alla mercé dell’ambiente in cui il caso ci ha fatto nascere e della società nella quale ci è dato crescere, come in un romanzo di Balzac?38
Seppur siano molte le domande a cui non possiamo dare una risposta definitiva, essere coscienti del proprio io, genetica o ambiente che sia, essere coscienti del proprio sapere, dei propri limiti, delle emozioni che si provano o del loro significato, non può che contribuire a sviluppare in noi l’attitudine ad un comportamento consapevole.39
Questo invito a conoscere la propria interiorità è descritto da Platone nell’ Alcibiade. Alcibiade è un giovane intenzionato ad assumere delle cariche politiche all’interno dell’assemblea ateniese, ricco e sicuro di sé, convinto di sapere cosa sia la giustizia e come vada governato uno stato. Se fino a quel momento i mentori che lo accompagnavano nel percorso formativo erano interessati soltanto alla sua bellezza, Socrate è risoluto nel proposito di aiutarlo a conoscere la propria anima, per essergli di sostegno nel tentativo di realizzare le proprie potenzialità e diventare un politico capace. Ricorre, pertanto, al suo metodo fidato, la maieutica, chiedendogli da chi abbia appreso queste nozioni, e il giovane risponde di aver imparato la giustizia da sé stesso e dal popolo. Quando Socrate menziona i conflitti interni che frequentemente vedono il popolo diviso, Alcibiade si convince che i cittadini non distinguano la giustizia dall’ingiustizia. Il giovane ribadisce che i cittadini non vengono interpellati a proposito della giustizia, bensì riguardo all’utilità. Socrate a tal punto risponde che la giustizia e l’utilità sono equivalenti e che tutti quelli che non sono a conoscenza di tale fatto non possono essere buoni politici.40 Gli spiega, inoltre, che se vuole fare del bene per gli altri e funger loro da guida, prima deve fare del bene per sé e migliorare sé stesso. E per maturare, ovvero plasmare la propria personalità, deve prima conoscersi.
Quali sono, dunque, le sue qualità, se paragonate a quelle degli avversari da cui deve difendere lo stato?
»Or non hai tu sentito dire le grandezze de’ Re de’ Lacedemoni (...) Quello [il re] de’ Persiani poi di tanto s’avvantaggia, che niuno ha sospetto possa un Re esser generato d’altro che di Re. (...) Com’egli ha sette anni va a’ maestri di cavalli, e si dà tutto ai cavalli, e comincia andare a cassia di fiere. A quattordici anni se lo ricevon quelli chiamati là regii pedagoghi. Sono eletti i più commendabili fra i Persiani; nel fior dell’età; e son quattro: quello più savio, quello più giusto, quello più temperante, quello più forte. (...) A te poi, o Alcibiade, Pericle dette a pedagogo il più inutile dei suoi servi (era tanto vecchio!) Zopiro il Tracio. (...) Se tu volessi poi guardare alle ricchezze, alla vestimenta, agli strascichi de’mantelli, agli unguenti odoriferi, alla molta compagnia di servi e alle altre delicatezze de’ Persiani, verrebbeti vergogna di te sentendo quanto sii tu da meno di loro. Se poi volessi guardare tu alla temperanza, alla costumatezza, all’amorevolezza de’ Lacedemoni, alla magnanimità, alla compostezza, alla fortezza, alla perseveranza, all’amore loro di fatica e di battaglia e di gloria; reputeresti te essere un fanciullo a petto di quelli.«41
Il precetto delfico dello gnothi seauton presuppone la conoscenza dei propri limiti e Alcibiade in seguito al dialogo con Socrate si rende conto di essere stato educato da un ‘monumento d’ignoranza’, di non poter pareggiare con i Persiani e gli Spartani né in qualità morali, né in erudizione, né tantomeno in ricchezza. L’analisi procede, spostandosi dalla formazione di Alcibiade alle sue conoscenze effettive e Socrate gli chiede (confermando con la pratica la mancata preparazione che prima gli imputava) come possiamo riconoscere un buon governo? In che cosa consiste la concordia tra i cittadini? Alcibiade comprende di non essere pronto per questo compito e prova vergogna per la propria trascuratezza:
»Socrate, non so anche io quel ch’io dico, per gl’Idii; e c’è caso che sia in vergognoso stato già da un pezzo, e non me sia accorto io.«42
Il momento in cui all’interlocutore tutto sembra perduto, però, è proprio quello in cui può iniziare per lui una svolta. Se finora aveva la presunzione di sapere, adesso l’imbarazzo lo pone nello stato d’animo giusto per voler cambiare la propria situazione. All’indispensabile pars destruens può finalmente susseguirsi la pars construens, e perciò Socrate lo rincuora subito: quello che non sappiamo si può sempre imparare.
Nell’era digitale la costante disponibilità dell’informazione può provocare nei fruitori digitali, tra cui gli allievi, l’illusione di sapere. Se la scuola contemporanea sottolinea soprattutto la ‘sensazione di successo’ che è necessario suscitare negli alunni per invogliarli allo studio43, lascia invece cadere in secondo piano l’utilità e la funzionalità di altre emozioni, bollate come ‘negative’. Nello specifico, viene evitata quella sensazione che nei dialoghi di Socrate sprona all’umiltà intellettuale: la vergogna.44
Il movimento psicologico della presa di coscienza è accompagnato da quello emotivo, il quale risulta cruciale per garantire l’impatto dell’insegnamento sull’interlocutore. Chi eccede in autostima non ha bisogno di migliorare o prendersi cura di sé, perché è convinto di aver già raggiunto la meta. Per crescere interiormente, insegna Socrate, bisogna prima rendersi conto della propria piccolezza. Mettersi in gioco, intellettualmente ed emotivamente, può essere il prerequisito per portarci alla volontà di prenderci cura di sé.
Resta da precisare un aspetto dell’utilità della vergogna nel processo educativo. Socrate non è cinico nei suoi commenti e nemmeno mostra la deliberata volontà di offendere. Egli è mosso soltanto dalla ricerca della verità e dalla convinzione che quest’ultima possa giovare al suo interlocutore (e alla società in generale).45 Alcibiade non teme di scavare nella sua interiorità sotto la guida del maestro perché sa di trovarsi in un ambiente protetto, da cui non gli giungerà alcun tipo di ritorsione, né verrà recato alcun danno alla sua persona. Data un’altra situazione con un insegnante motivato da obiettivi diversi, non si potrebbe sperare nella collaborazione dell’interlocutore né in un esito positivo del ricorso al metodo socratico:
»Platone sostiene che la conoscenza filosofica si accende in ognuno grazie al dialogo tra persone amiche (...) Un dialogo tra amici non significa un dialogo »pacifico«, anzi è lo spazio, forse l’unico, dove la vergogna può essere accettata come farmaco. Le critiche, le problematizzazioni, le analisi dello stile di vita dell’altro, sono cioè offerte sulla base di una benevolenza reciproca e sul riconoscimento di far parte di una medesima »comunità«. L’espressione »dialogo affettivo« non vuole quindi indicare un contesto dialogico dove le emozioni ritenute »negative« vengono estirpate; esse, invece, possono essere vissute ed espresse nella fiducia della loro comprensione da parte degli amici.«46
Una volta che Alcibiade si è reso conto della necessità di imparare Socrate gli illustra quale sarà il primo passo: capire come prendersi cura di sé. Spiega Michel Foucault nel corso tenuto al Collège de France nel 1981 che nella tradizione il principio gnothi seauton è stato tramandato separatamente dall’ epimeleia heautou, mentre la connessione tra i due risulta inscindibile.47 Socrate è stato il primo filosofo che ha dedicato la sua vita alla comunità, al tentativo di spronare gli altri a prendersi cura di sé, a dedicare alla collettività addirittura un metodo di autoeducazione.48 Sosteneva che gli Ateniesi fossero preoccupati maggiormente dai loro possedimenti (le terre, le ricchezze, la reputazione e l’onore), che dalle loro qualità intrinseche (la ragione e l’anima). Di conseguenza, secondo lui non era sufficiente spronarli all’autoanalisi; era necessario, invece, rivolgere la loro attenzione alla cura di ciò che in massima parte trascuravano e che, contrariamente, era cruciale nel raggiungimento dell’eudaimonia.
Foucault sostiene che l’importanza dei principi evocati da Socrate viene rilevata già dai suoi precedessori. I Pitagorici sostenevano che ci fosse una stretta connessione tra la cura di sé e l’acquisizione della conoscenza: è necessario uno specifico stato d’animo per raggiungere uno specifico stato intellettuale.49 Esistevano molteplici tecniche, simili a quelle riscontrate nel buddismo, che rendevano possibile questo rapporto. Una di queste tecniche era l’anacoresi, la quale prevedeva il separamento dell’individuo dal mondo esterno. Con diverse pratiche di meditazione si cercava di raggiungere uno stato psichico nel quale le sensazioni sono inibite e gli eventi del mondo esterno non possono turbare l’individuo. La pace interiore era ritenuta la più alta virtù. Questo stato d’animo favoriva la concentrazione e l’acquisizione di sapere ne era particolarmente agevolata.50
Un’altra pratica strettamente collegata alla sfera della moralità consisteva nell’autoanalisi (esame di coscienza) prima di coricarsi. L’individuo, la sera, prima di andare a dormire, doveva analizzare gli eventi della giornata, ricordarsi, o prender coscienza, degli errori commessi, e preoccuparsi di non ripeterli in futuro.
La terza di molte tecniche prevedeva l’opporre resistenza alla tentazione. Un esempio interessante di questa pratica ci viene tramandato da Plutarco. Si tratta di un esercizio nel quale l’individuo di buon mattino dovrebbe eseguire degli impegnativi sforzi fisici, che alla fine sveglierebbero in lui la fame. Di seguito dovrebbe sedersi a tavola ed ordinare ai servi di portare un’abbondante colazione, fatta di pasti variegati e saporiti, e guardarla soltanto, senza mangiarne nemmeno un boccone. Successivamente dovrebbe consentire ai servi di mangiare tutto il cibo disponibile sulla tavola, e lui invece mangiare il pasto riservato solitamente alla servitù.51
Lo scopo di tutte queste tecniche è il costante affinamento della coscienza di sé e dell’autocontrollo, aiutando l’individuo ad avvicinarsi a delle virtù prestabilite.52 Di quali virtù si parla? Della ragionevolezza, dell’azione altruista, della coscienza e della responsabilità, della giustizia, dell’atarassia.
Boran Berčić distingue due caratteristiche del ragionamento morale: la ragione e la sensibilità alle motivazioni. La capacità di comprendere le proprie azioni è un prerequisito della responsabilità morale e ciò non sarebbe possibile senza la ragione. L’altra caratteristica riguarda la sensibilità alle motivazioni, ovvero la capacità di agire in conformità con delle motivazioni nonché la capacità di riconoscere le motivazioni che mobilitano l’azione. Un ladro, rispetto ad un cleptomane, è sensibile alle cause perché se sapesse che verrà preso non intraprenderebbe il furto, mentre il cleptomane lo farebbe comunque. Solo le motivazioni che possono essere soggette a ragionamento sono prodotti del libero arbitrio e, pertanto, a responsabilità morale.53
In questa prospettiva le pratiche proposte dagli antichi e riportate da Foucault e Hadot non possono ostacolare eventuali divergenze culturali in relazione ai contenuti morali: esse agiscono ancora una volta sulla struttura mentale, l’apparato cognitivo dell’allievo, e possono soltanto contribuire a rendere il suo giudizio più meditato, consapevole ed accurato, senza pregiudicarne il contenuto.
Tuttavia, dopo aver esposto alcune considerazioni relative alle modalità in cui si può svolgere l’educazione morale, è opportuno affrontare il nodo più delicato, quello relativo ai contenuti dei giudizi morali.
3. Il sapere quale base dell’agire morale
Nella Repubblica Platone afferma che esiste una forma particolare del »bene«. Come il Sole è fonte di vita e rende visibile il mondo fisico, così il bene è responsabile dell’intelligibilità e dell’essenza nel mondo delle idee. Platone fornisce un fondamento metafisico del valore del bene e parla di un »bene assoluto«, un’idea superiore a tutte le altre. Inoltre, reputa che ciò che è buono sia nel contempo razionale, e che l’armonia nel mondo sensibile (negli specifici stati) sia raggiungibile soltanto laddove governa la ragione.54
Aristotele si allontana dall’idea del Bene assoluto postulata da Platone, proponendo invece l’esistenza di una molteplicità di beni. Per l’uomo il bene consiste nella realizzazione della propria esistenza, raggiungendo così la felicità. Tuttavia, Aristotele è consapevole del fatto che gli uomini non concordino sulla definizione della felicità e che, talvolta, essa varii con il tempo anche per una medesima persona: per il malato la felicità consiste nella salute, per il povero nella ricchezza, ecc.55 Secondo Aristotele nella vita quotidiana l’individuo fa riferimento a quello che costituisce un bene in un dato momento e non al bene-in-sé.56
Nell’ambito della filosofia politica le teorie aristoteliche hanno condotto al contestualismo e alla posizione secondo la quale per avere uno stato giusto è necessario mirare al bene di tutti i cittadini, assicurando ad ognuno la realizzazione delle proprie funzioni fondamentali.57 Martha Nussbaum in Aristotelian Social Democracy offre una lista di capacità umane funzionali basilari: poter vivere una vita umana completa senza la minaccia di morte prematura; poter essere sani, avere un’assistenza adeguata, un rifugio, la possibilità di godere sessualmente e la mobilità; poter evitare il dolore superfluo ed avere esperienze piacevoli; poter usare i propri sensi; avere la possibilità di legarsi a persone e cose; poter ragionare a proposito del bene e ragionare criticamente sulla pianificazione della propria vita; potersi prendere cura degli altri; potersi prendere cura degli animali e della natura; poter ridere, giocare, divertirsi con attività ricreative; poter vivere la propria vita con la sua massima specificità; poter vivere la propria vita nel nostro particolare contesto e nell’ambiente specifico.58
L’elenco di Nussbaum contiene degli ambiti da lei stimati universali per tutti gli esseri umani e nei quali viene realizzato il bene. Un individuo può decidere che alcune componenti non siano rilevanti per lui, però lo stato è giusto soltanto se consente all’individuo di decidere a riguardo.
Per estensione, possiamo affermare che un’istituzione scolastica ed i processi educativi che si svolgono al suo interno saranno giusti quando forniranno all’allievo l’occasione di venir a conoscenza di tali beni, di modo da poterli perseguire da adulto qualora lo reputasse opportuno.
Riprendendo il testo dell’ Alcibiade si può far luce su un ultimo aspetto ritenuto rilevante nella conciliazione tra pluralismo e educazione morale, tra rispetto e responsabilità, riproposto anche da Aristotele e rimarcato dall’aristotelica contemporanea Martha Nussbaum.
Nel tentativo di spiegare ad Alcibiade gli elementi che pregiudicano la ragionevolezza e l’efficacia dell’azione, Socrate offre un semplice esempio: se al malato diamo la possibilità di fare ciò che vuole e lui non conosce la medicina peggioreremo la sua salute. In modo analogo, se permettiamo ad un individuo di condurre una nave a suo piacimento ed esso non ha alcuna conoscenza in materia di scienze nautiche, verosimilmente stiamo mettendo in pericolo le vite di tutti i passeggeri dell’imbarcazione. Di conseguenza, se Alcibiade desidera ricoprire una carica politica, deve avere le competenze adatte per farlo ( il sapere) e le attitudini razionali ad applicarle in modo assennato ( la saggezza). La cura della propria anima non si conclude con l’individualismo, ma si apre ad un interesse etico, politico ed educativo. Migliorare la propria persona significa contribuire al miglioramento della vita nella polis.
Secondo la teoria socratica dell’intellettualismo etico l’individuo fa del male solo per ignoranza; se sapesse, infatti, agirebbe diversamente. Al di là del noto controargomento aristotelico incentrato sulla forza di volontà59 che può opporsi alla conoscenza e alla razionalità, la psicologia, la sociologia e la filosofia contemporanea ci offrono nuovi spunti di riflessione sul rapporto tra volontà, sapere e moralità.
Un contributo importante è quello del filosofo e sociologo norvegese Jon Elster, che negli anni ‘80 con i volumi Ulisse e le sirene. Indagini sulla razionalità e l’irrazionalità (Il Mulino, 1983) e Uva acerba. Versioni non ortodosse della razionalità (Feltrinelli, 1989) ha fornito una critica alla teoria della scelta razionale. Uno dei fenomeni psicologici fondamentali nella compromissione dell’oggettività della scelta razionale viene denominato da Elster formazione endogena delle preferenze (ingl. adaptive preference formation), strategia di »riaggiustamento« per la quale l’uomo sarebbe spinto a desiderare solo ciò che gli è disponibile, identificandolo con il bene.60 In altre parole, quando i nostri desideri insorgono come reazioni ad una limitazione imposta da una specifica situazione, essendo psicologicamente troppo doloroso ambire a qualcosa che non possiamo avere, è più semplice per noi adattare le preferenze alle circostanze: »vogliamo soltanto ciò che possiamo realizzare ed impariamo ad accontentarci di ciò che possediamo.«61
In un saggio di Elster relativo alla formazione dei desideri leggiamo:
»Why should the choice between feasible options only take account of individual preferences if people tend to adjust their aspirations to their possibilities? For the utilitarian, there would be no welfare loss if the fox were excluded from consumption of the grapes, since he thought them sour anyway. But of course the cause of his holding the grapes to be sour was his conviction that he would be excluded from consumption of them, and then it is difficult to justify the allocation by reference to his preferences.«62
In sintesi, secondo Elster uno dei problemi della sfera della volontà consiste nell’inaffidabilità dei nostri stessi giudizi, ovvero dell’incapacità di svolgere un’autoanalisi veritiera. Fatichiamo a conoscere noi stessi. Come possiamo ambire a tal punto ad un’azione morale ragionata e responsabile, che sia riflesso delle nostre preferenze e convinzioni?
A conferma della teoria di Elster giungono i dati raccolti da Martha Nussbaum in India nel 1997, nell’ambito del suo progetto di ricerca relativo allo sviluppo femminile. Intervistando due donne di disagiate condizioni sociali, Vasanti e Jayamma, la ricercatrice rilevò che la prima aveva sopportato per anni abusi e violenze da parte del marito nella convinzione che ciò facesse parte del ruolo di una donna sposata, mentre la seconda non protestava per il fatto di ricevere un salario minore nel nome della sua femminilità: »She knew that this was how things were and would be.«63 Nussbaum registrò una situazione simile nel deserto di Andhra Pradesh, dove intervistò alcune donne gravemente denutrite, il cui villaggio non aveva un accesso continuato all’acqua potabile. Le intervistate non mostravano alcun segno di rabbia o protesta relativa alle loro condizioni fisiche:
»They knew no other way. They did not consider their conditions unhealthy or unsanitary, and they did not consider themselves to be malnourished. Now their level of discontent has gone way up: they protest to the local government, asking for clean water, for electricity, for a health visitor.«64
Le testimonianze emerse dalla ricerca di Nussbaum mostrano chiaramente l’attitudine umana ad adattarsi alle circostanze in cui si è costretti a vivere, adeguandovi i propri valori, i giudizi morali e le aspettative. Tutte le donne intervistate avevano interiorizzato i sistemi morali vigenti nel loro ambiente famigliare, lavorativo o governativo come dei ‘dati di fatto’ naturali, ed erano a tal punto abituate alla propria condizione da reputare di non aver motivi di lamento.65
Pertanto, dialogo maieutico, pensiero critico e cura di sé, pur essendo alcuni dei pilastri dell’educazione morale, non sono criteri sufficienti. L’individuo che non è consapevole di doversi prendere cura di sé o che non ha gli elementi su cui applicare il vaglio critico della ragione difficilmente potrà migliorare la sua condizione.
Con queste premesse possiamo concludere che l’ istruzione diviene fondamento strutturale dell’ educazione e che il ruolo dell’educatore si mostra cruciale per lo sviluppo dell’individuo, specie nell’incentivare l’apprendimento autonomo, la ricerca di fonti valide e il continuo perfezionamento. Mentre per molti versi la didattica contemporanea si sta concentrando sui metodi di trasmissione del sapere, sui »contenitori«, sulle attività didattiche con le quali emozionare e stimolare gli studenti, una delle risposte che ci pervengono dall’antichità è la centralità dell’informazione in sé, della qualità del sapere che viene trasmesso. La disponibilità delle fonti, soprattutto tramite Internet, non devono farci giungere alla conclusione affrettata che tali fonti vengano effettivamente sfruttate dagli allievi. Riassunti tratti da siti dedicati alla didattica, esistenti ormai praticamente per tutte le discipline scolastiche, a portata di click per gli alunni, rischiano soltanto di condurrli ad una visione superficiale e banale del sapere. I contenuti ed il che cosa, ma soprattutto la qualità e la profondità di questi contenuti, non può venir sacrificata in nome degli strumenti e del come:
»The only avenue towards wisdom is by freedom in the presence of knowledge. But the only avenue towards knowledge is by discipline in the acquirement of ordered fact. Freedom and discipline are the two essentials of education.«66
Nemmeno il processo inverso è auspicabile, in quanto l’obiettivo primario della didattica è quello di istruire ed educare l’allievo, e ciò non potrà avvenire se i contenuti veranno presentati in modo ostico, cinico o incomprensibile per l’alunno.
In conclusione, davanti ad uno studente informato non si porrà più il problema del pluralismo, perché sarà in grado lui stesso di trovare la propria collocazione nella società in base ad una scelta ragionata e consapevole:
»One should attach more weight to the preferences of someone who knows both sides of the question than to someone who has only experienced one of the alternatives. These informed preferences are, of course, those of the individuals concerned, not of some superior body. They are informed in the sense of being grounded in experience, not in the sense of being grounded in meta-preferences.«67
Conoscendo posizioni diverse su questioni eticamente delicate, non si minaccerà il suo contesto famigliare o culturale, ma nel contempo gli si fornirà una ragionevole possibilità di abbracciare una teoria morale oppure un’altra.68 A Vasanti, Jayamma e molti altri che vivono in condizioni disagiate e di sopraffazione, si offrirà la possibilità di prendere una decisione consapevole e cambiare il loro percorso nel caso lo reputino necessario.
Trasmettendo un sapere scientifico, pluriprospettico e variegato, si aprono le porte di ciò che individuo può essere, sorvolando gli steccati di quello che è.
Conclusione
Si ha l’indottrinamento laddove si preclude la possibilità di confutare una teoria, omettendo le motivazioni scientifiche e non lasciando spazio all’argomentazione o alla discussione.69 Anche se nel corso del Cinquecento e del Seicento il sistema aristotelico è stato assunto quale base scientifica inconfutabile (basti pensare all’ Ipse dixit galileiano), Socrate ed Aristotele erano estranei al ruolo di indottrinatori, in quanto fondavano interamente il processo educativo sull’argomentazione e sulla discussione orientata allo sviluppo dell’autonomia nel ragionamento dell’allievo. Il loro obiettivo non era quello di assoggettare i cittadini allo stato, bensì rafforzare lo stato educando individui autonomi.
L’insegnante contemporaneo che ambisca al rispetto della diversità ed appoggi la società pluralista, non può essere un indottrinatore. La capacità di ragionamento critico risulta fondamentale per indirizzare l’educazione morale verso la collaborazione e il dialogo socratico offre una strategia pratica con la quale affinare le conoscenze dell’allievo: partendo dalle sue preconoscenze su uno specifico argomento si può sviluppare una discussione nella quale verranno smentiti eventuali pregiudizi, ricorrendo al principio di contraddizione. Con il metodo maieutico il giovane impara a ragionare, costruendo pensieri sempre più sofisticati nell’apparato argomentativo. In questo processo non appare di minor importanza la disponibilità dell’allievo, il quale nel rendersi conto della propria ignoranza è incline a provare una transitoria vergogna, emozione che può fungere da propulsore e stimolo nel prosieguo della ricerca. Non va trascurato, però, il fatto che l’ambiente di studio non dovrebbe essere un luogo impregnato di cinismo o caratterizzato dall’offesa o dall’umiliazione, ma una sicura palestra di vita, popolata da persone che conversano con reciproco rispetto e benevolenza.70
L’altro insegnamento degli antichi filosofi che è possibile applicare nella pianificazione di un’educazione morale inclusiva è la cura di sé, auspicata nell’antica Grecia congiuntamente al precetto conosci te stesso. Con varie pratiche ed esercitazioni l’individuo può imparare a discernere i propri giudizi ed agire in modo più consapevole, comprendere meglio i propri bisogni, desideri ed aspettative e migliorare la propria persona con un costante lavorio interiore.71
In ultima analisi, è stato rilevato che la capacità di ragionamento critico e la conoscenza di sé risultano vuote ed insulse senza dei solidi contenuti da elaborare, perché l’individuo che non possiede le basi sulle quali reggere le sue disamine difficilmente potrà progredire. Se nell’era della digitalizzazione, di Internet e delle fake news, non è più un problema accedere alle informazioni, il conoscere informazioni scientifiche e affidabili diventa una sfida. La trasmissione ‘tradizionale’ del sapere, ruolo millenario delle istituzioni dedicate all’istruzione, non può pertanto rimanere all’ombra dell’educazione al pensiero critico, bensì i due principi devono procedere pari passo. Fornendo argomentazioni adeguate e rimanendo sempre aperti ad approfondimenti e chiarificazioni si sfugge all’apprendimento acritico senza perdere il sapere. Informati sui fatti, istruiti sui vari aspetti delle questioni morali più problematiche, abituati a ragionare e a valutare il peso delle motivazioni disponibili, capaci di autoanalisi, autocritica e cura di sé, gli allievi della scuola pluralista non saranno né vittime di indottrinamento né lasciati in balia ai pregiudizi, ma attivi e consapevoli cittadini del mondo.