I locali della vita claustrale si sono articolati nel corso dei secoli per rispondere alle esigenze primarie della vita comunitaria dei monaci e delle monache, dei loro ritmi e delle loro funzioni. Lo stesso vale per gli ambienti liturgici modellati sulla preghiera comune e su quella personale: immagini, altari e arredi non solo impreziosivano dal punto di vista artistico i luoghi della preghiera, ma servivano e favorivano, elevandolo, l’incontro con Dio. In particolare alcuni elementi e devozioni – quali l’atrio, il coro, le cappelle, il culto della croce o dei santi patroni e la memoria dei defunti – hanno assunto un valore simbolico e una pregnanza rituale tali da modificare la percezione e l’articolazione degli ambienti stessi. Seguirne l’evoluzione diventa una forma per comprendere l’architettura monastica1 a servizio dell’ opus Dei nell’Europa cristiana, anche oltre il medioevo.
Gli studi storico-artistici e quelli archeologici, più volte e in genere in modo settoriale, si sono addentrati nell’analisi degli ambienti monastici, tuttavia l’esiguità dei reperti – in particolare di quelli altomedievali –, i cambiamenti delle strutture per le esigenze delle comunità e i restauri degli ultimi due secoli hanno occultato, a volte obliterando, le trasformazioni delle strutture, rendendo difficile la decifrazione delle articolazioni spaziali nel tempo e nello spazio. La complessa ricostruzione delle evoluzioni architettoniche e la comprensione dei locali per il culto o della vita quotidiana sono più accessibili unendo le varie componenti disciplinari – documentarie, liturgiche, devozionali, paleografiche, storico-artistiche, archeologiche –, inserendole nel contesto storico e collegandole ad altri esempi europei. Il convegno internazionale Living and Dying in the Cloister2 , tenutosi a Zadar a fine maggio 2016, a cura di Gabriele Archetti e Miljenko Jurkovic, nell’ambito dei periodici incontri dell’Irclama, è stato un esempio ben riuscito, dove discipline complementari si sono incontrate per analizzare, sotto punti di vista differenti, la complessità degli ambienti monastici offrendo alla comunità scientifica una visione più comprensibile ed esauriente della tematica storiografica.
L’occasione, che celebra la ricorrenza dell’arrivo della regola benedettina e dello sviluppo delle sue comunità in terra zaratina più di undici secoli fa, focalizza l’attenzione nuovamente sugli spazi monastici e sull’interessante caso del complesso di Santa Maria3 (fig. 1), fondato nel centro della cittadina, sul lato orientale dell’antico foro romano, nel 1066 da una nobile della famiglia Madijevci, chiamata Čika4. La nuova fondazione del monastero, che si sviluppava sulle basi di un precedente edificio religioso, già menzionato nelle carte dal 920, godette di privilegi e lasciti garantiti dal re croato Peter Krešimir IV (1059-1075). La figlia di Čika, Vekenega, entrò nel monastero intorno al 1072, dopo la morte del marito Dobroslav e, succedendo alla madre Čika, come badessa, chiese aiuto al re Coloman d’Ungheria – che a fine XI secolo aveva conquistato la Croazia – per completare il cenobio che nel frattempo si era ampliato. La tradizione storiografica5 ritiene che la grande torre campanaria sia una delle strutture realizzate dal re Coloman dopo il suo ingresso in città, nell’anno 1105, rifacendosi a quanto commemora l’iscrizione sulla parete esterna del campanile (fig. 2).
Fig. 1. Zara, monastero di Santa Maria.
Fig. 2. Zara, monastero di Santa Maria, campanile, iscrizione.
La chiesa a tre navate, ornata da colonne di reimpiego e capitelli altomedievali, si mostra all’interno fregiata da decorazioni a stucco di età barocca e da una facciata lapidea in stile veneziano di prima età moderna, elementi che indicano la lunga vita della fabbrica monastica (fig. 3). La basilica è introdotta da un grande endonartece e attualmente presenta sul fianco della navatella nord-orientale un accesso che conduce a una sala identificata come quella del capitolo (fig. 4). L’ambiente a pianta rettangolare si pone, collegandoli, tra la chiesa e il chiostro, ed è adiacente alla torre campanaria, alla cui base, al piano rialzato, si sviluppa una cappella con affaccio sulla sala capitolare (fig. 5). La particolare connessione tra i due ambienti (campanile - sala capitolare) e la funzione dell’oratorio sopraelevato inserito nel campanile ha destato molta attenzione da parte della storiografia, come il recente intervento di Ana Marinković6, che ritiene il sacello essere la cappella privata del re Coloman, ipotizzando un ingresso indipendente sul sagrato, a cui si accedeva mediante una scala esterna, parallela alla facciata della chiesa.
Fig. 3. Zara, monastero di Santa Maria, navata centrale, zona presbiteriale.
Fig. 4. Zara, monastero di Santa Maria, planimetria della chiesa, del campanile e della sala detta del Capitolo. In azzurro l’accesso attuale alla sala; in verde l’ipotesi dell’antico ingresso.
Fig. 5. Zara, monastero di Santa Maria, sala detta del Capitolo vista dalla cappella sopraelevata.
Le dimensioni, la decorazione pittorica e il luogo, insieme al contesto claustrale femminile benedettino, dove si sviluppa il sacello sopraelevato, tuttavia pongono dubbi sulla fondazione regia del piccolo oratorio, che appare di dimensioni troppo ridotte, poco rappresentativo per la corte reale e inadatto a seguire le funzioni liturgiche che si svolgevano in chiesa, verso cui non vi erano accessi o sbocchi, come invece accadeva ad esempio nel westwerk di Corvey7, il cui avancorpo occidentale della fabbrica era munito di una loggia sulla navata da cui l’imperatore poteva assistere alle cerimonie religiose, o di Essen-Werden8.
Il piccolo sacello zaratino invece si affacciava unicamente, grazie a una porta-finestra, sulla sala del capitolo, parallela alla chiesa, dove non si officiava la messa (fig. 6). Alcuni dettagli dell’oratorio, inoltre, escludono che si tratti di una cappella privata perché, se così fosse, l’esclusività regale sarebbe andata in conflitto, sovrapponendosi con una funzione basilare per la vita quotidiana della comunità monastica. Questo locale era destinato alla scansione del tempo: infatti, sulla volta a crociera sono ancora visibili i fori da quali scendevano le corde delle campane (fig. 7), il compito era assegnato a una delle monache della comunità che doveva spostarsi dal coro, dove sedeva per la liturgia delle ore, alla cappella sopraelevata. Pertanto, era poco verosimile che un’azione fondamentale, quotidiana e reiterata più volte al giorno si potesse eseguire all’interno di una stanza esclusiva riservata al re.
Fig. 6. Zara, monastero di Santa Maria, sala detta del Capitolo, parete nord adiacente al campanile, particolare della porta-finestra.
Fig. 7. Zara, monastero di Santa Maria, cappella sopraelevata all’interno del campanile, affresco con Deesis e particolare della volta con fori per le corde delle campane.
Dalle foto storiche, scattate dopo i bombardamenti e durante i restauri, si può osservare che la parete di collegamento tra la sala capitolare e la chiesa non prevedeva l’attuale ingresso (fig. 8); al contrario, accanto alla tomba della badessa Vekenega9, vi erano arcate con finestre da cui poter seguire le funzioni liturgiche, mentre un passaggio agli ambienti monastici non si riscontra ma poteva stare nei pressi dell’area absidale (figg. 4, 9, 10). La chiesa eretta sul foro era aperta alla cittadinanza e pertanto, nei momenti in cui i fedeli erano presenti nella basilica, le monache dovevano riunirsi in uno spazio separato, verosimilmente nella sala adiacente alla navata, che era adibita così a più funzioni, tra cui quella delle riunioni del capitolo e perciò munita di stalli. Gli scranni erano presenti anche nella chiesa, dove le monache si riunivano per la preghiera corale e, quando si chiudevano le porte ai fedeli, potevano usufruire in piena autonomia dell’edificio sacro. Gli stalli erano collocati in modo plausibile nel corpo centrale della chiesa a ridosso del presbiterio e potevano essere muniti di un camminamento che da questa zona conduceva le monache verso gli ambienti di vita quotidiana del chiostro, entrando dalla porta a ridosso dell’abside laterale nord-orientale, a fianco della tomba della badessa Vekenega (fig. 11). Attualmente la chiesa è dotata di grate sia nella sala del capitolo, sia nell’area dei matronei a cui si accede dal piano superiore.
Fig. 8. Zara, monastero di Santa Maria, sala detta del Capitolo, dopo i bombardamenti.
Fig. 9. Zara, monastero di Santa Maria, sala detta del Capitolo, dopo i bombardamenti.
Fig. 10. Zara, monastero di Santa Maria, sala detta del Capitolo, dopo i bombardamenti.
Fig. 11. Zara, monastero di Santa Maria, sala detta del Capitolo, tomba decorata con una bifora.
La funzione della cappella sopraelevata, come quella della sala capitolare, era differenziata: rappresentava lo spazio riservato alla monaca incaricata di dare il segnale della preghiera; impreziosiva la sala capitolare di un sacello sacro, quando in basilica erano presenti i fedeli; conservava importanti reliquie presenti nel monastero all’interno di preziosi contenitori per poi esporli dalla porta-finestra verso la sala; costituiva l’uso devozionale per la monaca che doveva scandire il tempo. Per le sue peculiarità il piccolo oratorio era arricchito di affreschi, di cui rimangono alcuni brandelli, che raffigurano la Deesis10 distinta da paradigmi eterogenei (fig. 7). Si nota infatti l’unione di un modello occidentale, Cristo in mandorla attorniato dal tetramorfo, a uno schema orientale l’aggiunta ai lati della scena della Madonna e di san Giovanni. Il tema iconografico, molto diffuso in età medievale, rappresenta la supplica nelle scene del Giudizio universale, in cui la Vergine e Giovanni Battista intercedono per il genere umano: il soggetto, che vede anche l’Annunciazione con Maria e l’arcangelo Gabriele e che era arricchito da altre sequenze narrative sulle pareti e sulle volte non più distinguibili, sembra enfatizzare il tema della salvezza dell’uomo grazie all’incarnazione di Cristo, all’intercessione della Vergine e dei santi e alle preghiere della comunità benedettina.
La grande apertura del piccolo oratorio sulla cappella che ha le caratteristiche di una porta-finestra aveva la funzione espositiva e di affaccio verso la comunità raccolta in preghiera, alcune tracce nella parete indicano, seppur molto rimaneggiate dai restauri, la presenza di una sorta di balaustra protettiva. La monumentalizzazione del passaggio suggerisce la rilevanza dell’azione liturgica, ad esempio, dell’ostensione di reliquiari, che rafforzavano il legame tra uomo e Dio, ma soprattutto l’esempio a cui riferirsi, il modello da seguire per intraprendere il cammino verso la salvezza. In particolare, è documentata nel cenobio la presenza di un antico e copioso tesoro11 tra i cui pezzi figura il reliquiario con la testa di san Gregorio Magno12, decorato da una Deesis recante l’Annunciazione, l’Incontro tra Gioacchino e Anna e una trilogia sotto arcate, dove si inserisce san Gregorio tra Crisostomo e Anastasia, patroni della città di Zadar.
Simili casi e analoghe strutture si ritrovano nei cantieri medievali europei, anche se le trasformazioni, il degrado del tempo e i restauri ne velano le tracce. L’utilizzo di cappelle sopraelevate all’interno di torri campanarie è frequente e si accompagna al posizionamento del campanile in facciata o nell’area occidentale di specifiche fabbriche, come nel caso zaratino. Non si tratta di un vero westwerk che si riscontra nelle chiese carolinge di area germanica e che può essere adibito ad un privilegiato spazio regale, ma all’enfatizzazione dell’area dirimpetto alla zona absidale funzionale all’esposizione, all’ostensione di reliquie importanti nella chiesa e adatta a percorsi processionali e devozionali. Non vi è quasi mai uno schema compositivo fisso ma, a seconda delle esigenze della comunità e degli spazi, questi ambienti liturgici sono adattati e pertanto la loro individuazione, cambiando caso per caso, è più complessa e necessita di uno studio interdisciplinare, poiché le tracce diventano via via più labili.
A questo proposito in ambito lombardo, in particolare bresciano, si riscontrano casi paralleli e cronologicamente vicini. Il primo è quello del monastero benedettino femminile di Santa Giulia di Brescia13, che presenta le tracce archeologiche di una cappella sopraelevata, dedicata a Santa Maria de Hierusalem14 , databile al X secolo, dove erano conservate le reliquie della Passione di Cristo15, come ricordano le fonti, e che si posizionava tra l’area aperta ai fedeli – che era anche la zona cimiteriale del cenobio, una sorta di Galilea16 – e quella protetta della clausura (fig. 12). La cappella era posizionata in asse e contrapposta all’altare maggiore, sotto cui si conservavano nella cripta, entro tre arche, le reliquie della santa dedicataria, Giulia17, martire crocefissa come Cristo, e di altri otto corpi, tra cui Fede, Speranza, Carità, Ippolito, Giustino, Pimeneo, e due Santi Innocenti18. Tra l’oratorio sopraelevato e il presbiterio si sviluppava il coro delle monache nella navata maggiore, il cui punto di vista centrale permetteva di vedere le reliquie da ambo i lati.
Fig. 12. Brescia, monastero di San Salvatore-Santa Giulia, ora museo cittadino. A sinistra: visione del complesso dall’alto. A destra: ricostruzione della chiesa con cappella sopraelevata (in arancione).
Detto schema di cappella sopraelevata19, quando per esigenze monastiche viene abbattuto, si ripete nel nuovo campanile di fine XII secolo che viene spostato lateralmente, verso sud, ma che presenta ugualmente una cappella interna sopraelevata: essa era utilizzata dalla sagrestana che aveva il compito di «provvedere al decoro dei paramenti e dei libri liturgici, all’arredo degli altari e alla cura dei reliquiari», posti in sagrestia, come pure di avvertire con il suono delle campane «le consorelle dell’inizio delle funzioni religiose durante la giornata, della riunione del capitolo o della fine del riposo pomeridiano»20, come ricorda Archetti. Per non disturbare le preghiere delle monache in coro, la sagrestana assisteva da una finestrella, protetta da una balaustra, posta a metà navata, che era collegata direttamente alla sagrestia al pian terreno e al campanile a cui accedeva attraverso il braccio settentrionale del chiostro centrale, permettendole di entrare, al primo piano, all’interno dell’adiacente campanile (fig. 13). La torre campanaria, a questo livello, era munita di un vano entro cui scendevano le corde delle campane e di un tabernacolo davanti al quale la monaca poteva raccogliersi in preghiera.
Fig. 13. Brescia, basilica di San Salvatore-Santa Giulia. In alto a sinistra: navata centrale verso l’abside. In alto a destra: navata centrale verso la controfacciata. In basso a sinistra: finestra da cui si affacciava la monaca sagrestana.
Alla fine dell’XI secolo il clichè adottato nel cenobio giuliano è utilizzato in città e in diocesi, partendo dalla cattedrale impreziosita da un campanile, ora abbattuto, posto in facciata, al cui interno, nel primo piano, viene realizzato un oratorio che conservava il tesoro delle Sante Croci della cattedrale21 (fig. 14). Lo schema compositivo si diffonde nel resto della diocesi e si riscontra nel potenziamento della zona occidentale di numerose pievi bresciane, tra cui quella di Maderno22, di Montichiari23 o di San Siro a Cemmo24, come pure di Sant’Andrea a Iseo25, dove è ben conservata. La matrice edificata sul lago omonimo, dedicata all’apostolo pescatore, presenta una torre campanaria al centro della facciata al cui primo piano, in asse con l’altare maggiore, si sviluppa una cappella sopraelevata con finestrelle laterali per l’esposizione delle reliquie del proto-vescovo Vigilio che venivano spostate in determinati momenti liturgici dell’anno dalla cripta all’oratorio occidentale della torre e qui collocate in una nicchia appositamente realizzata.
Fig. 14. Brescia, cattedrale di Santa Maria, detta la Rotonda, con il campanile di facciata vicino alla chiesa di San Pietro de Dom e al Palazzo del Broletto (Brescia, Archivio di Stato, Archivio Storico Civico, ms C.I.458, Estimo della città, 1588).
La salvezza dell’anima, la preghiera, l’esempio dei martiri, dei santi patroni e della Vergine, come pure il contatto salvifico con le loro reliquie, la devozione alla croce attraverso la quale Cristo è morto per salvare l’umanità, vengono ricordati non solo nelle parole delle Sacre Scritture e nella liturgia, ma anche attraverso le forme artistiche, la gerarchia degli spazi e dei livelli di altezza in un continuo dialogo tra l’uomo e Dio, tra cielo e terra o tra micro e macrocosmo come amavano immaginare i medievali. L’esempio della cappella sopraelevata di Zadar, dunque, si inserisce in una prassi edilizia funzionale alla liturgia e ai tempi della preghiera monastica, enfatizzando il patrimonio reliquiario di una comunità quale memoria della fede.